Quando ci ritroviamo a domandarci: “Ma come? Io sono sempre così generosa, mi prodigo per gli altri e in cambio non ricevo che schiaffi e irriconoscenza?” (a parte il fatto che già il porsi una domanda di questo tipo la direbbe molto, molto, lunga ad un osservatore attento), proviamo in queste situazioni ad indagare anche un po’ oltre la superficie della questione.
Questa convinzione di fare qualcosa per il bene (o per il male) degli altri è un’altra delle innumerevoli memorie (convinzioni) da cancellare! Come altrettanto fasulla è la convinzione che gli altri “ci facciano” del bene o del male!
“Io mi sono sempre sacrificata per gli altri… tutta la vita! E ho ottenuto solo ingratitudine“
Questa frase così spesso udita o peggio ripetuta è il top del “sonnambulismo spirituale”!
Abbiamo questa convinzione quasi innata che “gli altri si avvantaggino a nostro discapito da tutti i sacrifici che siamo costretti o ci costringiamo a compiere per il “ben” appunto degli altri!
Quando mi “sacrifico” sto perdendo qualcosa che avvantaggia qualcun altro perciò il minimo che mi spetta è “un po’ di riconoscenza”. Nella mentalità comune “sacrificarsi” significa rinunciare a qualcosa di nostro (o che ci fa bene) per fare del bene a qualcun altro!
E’ un’operazione algebrica… per dare qualcosa a te devo toglierlo da un’altra parte… con il sacrificio la tolgo a me e la do a te!
Questa prospettiva mi porta a due immediati risultati:
- Non vivo la mia azione con gioia e gratitudine;
- Ho diritto a qualcosa in cambio (riconoscenza/gratitudine dagli altri).
Ecco che il cerchio si chiude: la gratitudine che non riesco ad evocare in me stesso con l’azione che compio (sacrificio) la cerco (ne ho diritto) dagli altri fuori di me!
E’ evidente che questo modo di vedere le cose non è un modo efficace di affrontare la vita! E questa disfunzionalità dipende da un malinteso di fondo: il “sacrificio” inteso come “rinuncio a ciò che fa stare bene me per fare stare bene te” è un errore interpretativo dell’originario concetto di “sacrifici” che è nato con il senso molto profondo di “rendere sacra l’azione che compio“!
In origine la parola “sacrificio” indicava l’azione di rendere sacro ciò su cui si stava agendo, non di autoinfliggerci privazioni o sofferenze in virtù di un non meglio identificato bene altrui.
Non meglio identificato nel senso che comunque noi dalla limitata prospettiva in cui ci troviamo non siamo in grado di stabilire quale sia effettivamente il bene di qualcun altro, il più delle volte non siamo in grado di riconoscere nemmeno il nostro.
Rendere qualcosa sacro invece è un altro discorso, perché rendiamo sacro qualcosa quando lo rivestiamo della nostra gioia, e quindi ha senso perseguire il “bene altrui” quando farlo ci rende felici, quando compiere una buona azione è qualcosa che facciamo perché ci rende felici compierla.
Che poi questo possa essere un beneficio per qualcun altro diventa un piacevole effetto secondario, quindi l’eventuale riconoscenza che ne nascerà ci lascerà addirittura sorpresi… perché noi saremo grati e gioiosi (autonomamente) solo per l’opportunità di averla potuta compiere quell’azione! Senza la nostra gioia non possiamo rendere sacro nulla.
Giovanna Garbuio
https://www.giovannagarbuio.com/