Antonio Bertoli, poeta e scrittore, uomo di teatro e performer, si occupa da sempre di poesia e di arte e della loro interazione con la società, la conoscenza, la psicologia del profondo e la guarigione.
Dopo Gurdjieff e la scuola di autoconoscenza di Silo, incrocia la psicanalisi, si laurea sulle avanguardie storiche del Novecento, dirige teatri, fonda City Lights in Italia, pubblica libri, dirige collane editoriali, festival, lavora per circa 18 anni con Alejandro Jodorowsky (teatro, poesia, letteratura, esposizioni, stages di psicomagia e tarocco), collabora con F.Arrabal, L.Ferlinghetti, Ed Sanders, J.Baudrillard, D.Dumas e vari esponenti della cultura, della psicogenealogia e dell’arte contemporanea.
Esperto anche di Nuova Medicina, che ha fuso con la psicanalisi transgenerazionale all’insegna di quella che ha chiamato “Teoria degli archetipi primari”, conduce stages intensivi al riguardo sia in Italia che all’estero (Spagna, Francia, Belgio).
1. Un nuovo paradigma
La scienza e l’epistemologia contemporanea sono ormai concordi nel definire che la realtà non è un dato di natura fisso e immutabile, ma che essa dipende dagli strumenti di conoscenza che di volta in volta l’uomo ha a disposizione per spiegarla. Ogni civiltà e fase storica si è data un’idea della realtà ed ha creduto che questa fosse la realtà, vale a dire quell’unica e vera, definitiva realtà che ci circonda e ci appartiene, fissata una volta per tutte e valida per chiunque e per qualsiasi tempo. Una volta si credeva che il sole girasse intorno alla terra e che questa fosse il centro dell’universo, che fosse piatta e non rotonda: la realtà di Tolomeo costituiva la base su cui si strutturava la visione del mondo di allora e qualunque azione, pensiero e parola derivava da questo paradigma. Il fatto che la terra fosse piatta e costituisse il centro dell’universo era la realtà in cui si viveva, quella che si insegnava, quella a cui si rapportava qualsiasi pensiero, azione, spiegazione possibile. Ci sono voluti enormi sforzi – a suon di scomuniche e persecuzioni inquisitorie, tra le quali la più famosa è quella di Galileo – per arrivare a fare accogliere quella realtà che ormai tutti noi, oggi, reputiamo scontata e addirittura banale: la terra gira intorno al sole insieme ad altri pianeti e non è il centro dell’universo, è anzi un granello infinitesimale di un sistema planetario, a sua volta minuscolo, che partecipa a una galassia che è a sua volta in interazione con altre innumerevoli galassie nell’immensità dell’universo. Anche questa realtà per noi così ovvia e consolidata, però, non è assolutamente certa: basta aprire un qualsiasi testo divulgativo di fisica contemporanea e d’improvviso questa certezza vacilla, perché la fisica delle particelle e dei quanti riduce di fatto al 20% la nostra conoscenza del reale, di ciò che esiste effettivamente al di fuori di noi (e forse anche dentro di noi). La realtà – ciò che chiamiamo “realtà”, costituita di dati certi, fissi, rigidi, immutabili – non è assolutamente tale per la fisica: è più quello che non sappiamo di quello che sappiamo, e quel poco che sappiamo non è assolutamente certo, anzi. A partire dal principio di indeterminazione di Heisemberg fino al teorema dell’indecidibilità di Gödel, passando attraverso la genetica e l’astrofisica, la realtà non è più tale: è soggetta a variazioni, a indecisioni, a indicibilità. La teoria dei sistemi e la fondamentale novità del principio di auto-organizzazione dei sistemi viventi – che ha investito tutti i campi del sapere – ha sradicato alle fondamenta una concezione dell’uomo e della realtà basati su leggi fisse, su dati rilevabili definitivamente, una visione del mondo per così dire “newtoniano-cartesiana”. La grande scoperta della scienza contemporanea è la definizione del dato di realtà come esito di una relazione tra osservatore e “quanto fisico-biologico”: non esiste alcuna realtà definibile, e quindi non esiste nessuna realtà in senso assoluto, se non nell’interazione tra noi e quello che c’è fuori di noi, il quale è e resta – almeno per ora – inconoscibile. Lo studio della relazione è lo studio dei sistemi auto-organizzativi, i quali sembrano lavorare proprio sull’abolizione delle dualità che avevano invece strutturato fino ad oggi sia il sapere che la visione dell’uomo e del mondo. Brutto e bello, vero e falso, vita e morte, ordine e disordine, informazione e rumore, in poche parole tutte le antitesi su cui si sono costruiti il pensiero e la scienza classica sono crollate in quanto antitesi, per andare invece a configurarsi come elementi in interrelazione tra di loro e insieme organizzati nel “vivente”, il quale è un sistema complesso autoregolatore e autoreferente. Se si supera la concezione dei poli oppositivi come antitetici per sostituirli col loro dialogo, con la loro relazione secondo quanto ci insegna anche la scienza contemporanea, constatiamo che è proprio dal paradosso apparente della simultaneità necessaria degli opposti che nasce l’emergenza incredibile della vita, la sua creatività e la sua dinamica morfogenetica ed euristica. È dal paradosso che nasce la vita e la sua infinita differenziazione, e il paradosso nasce proprio e solo dal dialogo tra gli opposti: corpo e spirito, materia e anima, biologia e psiche, realtà e immaginazione, ma anche maschio e femmina, uomo e donna, padre e madre, figlio e figlia.
Se ciò appare evidente in quanto esito inevitabile degli approdi della scienza, permangono ancora delle perplessità di tenore applicativo nelle cosiddette scienze umane: la medicina da una parte, la psicologia e la psicanalisi dall’altra parte, si ostinano infatti a restare vincolate a un paradigma ormai decisamente obsoleto. Eppure è proprio in questi ambiti che la ricerca ha raggiunto gli approdi più significativi e rivoluzionari. Questa ricerca è costituita dal capovolgimento diagnostico e dalle nuove acquisizioni proprie della nuova medicina di R.Gerard Hamer da una parte, e dalla cosiddetta psicogenealogia o psicologia transgenerazionale nel campo delle scienze umane. Così come la nuova medicina si occupa della dimensione collettiva del vivente, tramite la “memoria della specie”, per spiegare la trasposizione biologica dei conflitti e l’evoluzione delle cosiddette malattie – considerando l’individuo contemporaneamente dal punto di vista biografico (individuale) e biologico (collettivo) –, anche la psicogenealogia si occupa dell’individuo dal punto di vista soggettivo (biografico) e collettivo (famiglia). Entrambe hanno cioè finalmente re-introdotto in ambiti troppo ristretti e specialistici la dimensione antropologica e psichica dell’individuo, la quale è necessariamente collettiva: l’individuo non è il solo, isolato e unico referente dei propri disagi, ma un sistema complesso di elementi e di relazioni in auto-organizzazione dinamica continua, un tutto inseparabile in cui convivono al medesimo tempo la specie (dimensione biologica e psico-neurocerebrale), la coscienza (dimensione psicologica individuale), la famiglia e la collettività (dimensione geno-antropologica). In tal senso la malattia non si configura più come un “dato di natura”, una calamità più o meno naturale, un destino, per diventare invece quello che è: una manifestazione umana, e cioè un programma biologico speciale dotato di senso, un prodotto dalla specializzazione evolutiva del sistema “uomo”.
L’evoluzione ha dotato i sistemi viventi di strumenti adeguati di risposta e di adattamento all’ambiente, veri e propri programmi di sopravvivenza, trasformando il vivente da organismo unicellulare a pluricellulare, da paleolitico a neolitico, da neurovegetativo a volontario, da paleoencefalo a neoencefalo, da psiche arcaica a coscienza. Questo processo ha richiesto milioni di anni, miliardi di mutazioni, di correzioni e di accorgimenti che ancora oggi continuano, e probabilmente continueranno ancora a lungo. Ciò non significa però che l’antico, l’atavico, il “paleo”, siano scomparsi. Essi convivono ancora col nuovo, con la pluricellularità, il neoencefalo, il sistema nervoso volontario e la coscienza: essi garantiscono al nuovo di espletare e sviluppare le sue nuove possibilità, sopperendo a tutte le funzioni neuro-vegetative primarie e al recupero energetico, in modo da lasciare l’individuo – il nuovo – libero appunto di agire con le sue nuove potenzialità. Quando questa emergenza relativamente recente dell’evoluzione non è in grado – con le sue nuove possibilità – di rispondere adeguatamente alle sollecitazioni ambientali, quando la sopravvivenza e la conservazione della specie sono messe in causa e il neoencefalo, il sistema nervoso volontario e la coscienza non riescono a garantirle, allora il paleoencefalo e il neurovegetativo, la psiche primaria e arcaica, subentrano con le proprie risposte: le migliori che la specie stessa ha trovato nel corso della sua evoluzione. Così la perdita d’identità e di contesto, laddove non possa essere gestita dalla coscienza, viene risolta con la soluzione arcaica della ritenzione dei liquidi e la sindrome dei reni, che un nostro antenato ha fornito come migliore risposta di adattamento alla fuoriuscita dall’acqua in cui eravamo immersi agli esordi dell’evoluzione. Questa interazione tra paleo e neo encefalo, tra biologia e cervello, tra psiche arcaica e coscienza, tra sistema nervoso volontario e neurovegetativo, è il sistema complesso dal quale nascono tutte le manifestazioni dell’essere, sia sul piano psicologico che su quello organico-biologico: è su questo, infatti, che si configura la teoria del conflitto che è alla base della nuova medicina di Hamer.
2. Archetipi primari e patologie
Eppure questo non basta ancora, non riesce a raggiungere e a sciogliere la complessità del vivente… Ogni neonato rappresenta il nuovo nato (neo-nato), vale a dire una novità che si inserisce in una tradizione: se la riproduzione-conservazione è un fatto innato e fondamentale della specie – e costituisce quindi una tradizione –, ogni individuo rappresenta al tempo stesso una mutazione potenziale, e dunque una possibile novità all’interno di una tradizione. Il neo-nato, l’individuo, il soggetto, racchiude in sé tutte le valenze di coloro che gli hanno dato nascita (la tradizione), ma racchiude anche la possibilità della mutazione evolutiva – laddove questa risulti necessaria – ovvero la sua novità, quello che ci può essere di diverso nell’ambito del sempre uguale, la nuova potenziale risposta evolutiva. Ogni neo-nato, ogni individuo, ogni soggetto, vive dunque i vincoli della sua genesi e al contempo le possibilità racchiuse in questa sua stessa genesi: i vincoli e le potenzialità del biologico, dello psichico, dell’antropologico, del genealogico e della coscienza.
Ottemperando alla propria sopravvivenza, l’individuo rispetta la legge della conservazione della specie e riproducendosi la esalta, perché non solo conserva la specie ma la riproduce e dà ad essa una possibilità evolutiva. Per questo la vita ha dotato i due poli oppositivi del maschile e del femminile di un’attrazione primaria, ed ha fornito la relazione tra questi poli apparentemente oppositivi di elementi complementari e contrari al tempo stesso (basta pensare alla secrezione ormonale degli estrogeni e degli androgeni per rendersene conto). E sempre per lo stesso motivo ha istituito un legame complesso tra i nuovi nati e i genitori. Si tratta di legami che sono al contempo biologici, psichici, genealogici ed antropologici, che fanno in modo che la specie si conservi al meglio di se stessa (con tutto il suo bagaglio di esperienza e di maturazione biologica, genealogica, paleopsichica, paleoencefalica e neurovegetativa) e possa contemporaneamente evolvere (la specializzazione della coscienza, del neoencefalo, del sistema nervoso volontario). Questi legami sono garantiti e trasmessi dai genitori, i quali li hanno ricevuti da altri genitori e questi da altri ancora, risalendo via via fino all’origine della specie. I fondamenti di questa trasmissione e di questi legami, così come la possibilità evolutiva costituita dal neo-nato – e quindi la conservazione, la riproduzione e l’evoluzione della specie – sono racchiusi nei due archetipi primari del maschio e della femmina, dell’uomo e della donna, del padre e della madre, del figlio e della figlia.
Senza uomo e donna, senza maschio e femmina, senza padre e madre e senza figlio e figlia non si dà vita e nemmeno nuova vita, né dal punto di vista biologico, né da quello psichico, né tanto meno da quello antropologico. Il femminile e il maschile rappresentano quindi gli archetipi primari di riferimento di qualsiasi soggetto, di qualsiasi individuo, e ciò vale sia per le scienze esatte che per quelle umane. È evidente quindi che qualsiasi manifestazione soggettiva, individuale, trova la sua origine proprio in questi archetipi primari, sia essa una malattia del corpo o della mente. Ogni conflitto che la coscienza (il sistema nervoso volontario, il neoencefalo, il neo-nato) non riesce a risolvere, e che viene quindi affrontato in termini di programma biologico sensato che attinge al paleoencefalo, alla psiche arcaica e al sistema nervoso neurovegetativo, hanno sempre un riferimento negli archetipi primari costituiti dal maschile e dal femminile, perché qui risiede la legge primaria della conservazione, riproduzione ed evoluzione della specie. Se la nuova medicina ha finalmente fornito una spiegazione scientifica convincente del sintomo organico, tramite una teoria precisa dei conflitti che attivano un programma biologico speciale e sensato di carattere neurovegetativo (arcaico) e paleopsichico, fornendo finalmente un’eziologia a ciò che finora era trattato solo dal punto di vista sintomatologico, essa non arriva però a spiegare perchè un individuo va incontro a quel particolare conflitto, né d’altro canto fornisce spiegazioni a quelle che vengono generalmente chiamate malattie ereditarie o propensioni famigliari alla malattia. Né si spiega, d’altro canto, le malattie congenite, i dolori mestruali, le psicosi infantili, l’autismo, il carcinoma neonatale.
Ogni alterazione del precario equilibrio che è proprio della vita, vale a dire ogni alterazione dell’equilibrio tra maschile e femminile, tra uomo e donna, tra padre e madre, determina una risposta evolutiva di adattamento che coinvolge i principi stessi della sopravvivenza e conservazione della specie, la quale si radica nella memoria evolutiva e viene trasmessa di generazione in generazione, di neo-nato in neo-nato, a livello bio-neuro-psico-geno-antropologico: una risposta alla quale si attinge quando la coscienza e il sistema nervoso volontario (strumenti del “neo-nato”) non sono sufficienti per sciogliere un conflitto vitale. La formula è molto semplice: qualsiasi manifestazione individuale – fisica e/o psichica – è un’alterazione dell’equilibrio tra maschile e femminile. Questa alterazione è riscontrabile nella famiglia di origine del soggetto-individuo, e così come dal sintomo organico è immediatamente rilevabile il conflitto scatenante sul piano biografico, altrettanto immediatamente è rilevabile la connessione al maschile o al femminile del conflitto stesso sul piano psico-genealogico. In altre parole, ogni sintomo ha un conflitto di base e ogni conflitto di base corrisponde a una problematica primaria dell’archetipo maschile o femminile famigliare. Ogni patologia di uno dei due archetipi primari determina uno squilibrio e dunque la patologizzazione anche dell’altro archetipo, causando una patologia complessiva che incide su entrambi. Se il nuovo nato non porta a soluzione questo squilibrio, la soluzione è rimandata al piano psichico arcaico e alla biologia, sempre più radicale col passaggio generazionale. In altre parole: la radice vera del conflitto scatenante (sia esso di autosvalutazione, di territorio, di identità, di separazione, ecc.) non risiede nella biografia individuale – dove si trovano sempre e solo dei binari di conflitto – ma nell’alterazione degli archetipi primari (maschile e femminile) propria della famiglia di provenienza.
In sostanza: se la vita dipende, si conserva, si riproduce ed evolve tramite il dialogo complesso del maschile e del femminile, è proprio all’interno di questo dialogo, nelle sue variazioni e tipizzazioni, nelle sue “patologie”, che si rintraccia l’origine ultima di ogni patologia e di ogni possibile conflitto. Dal punto di vista biologico e della legge primaria della conservazione, riproduzione ed evoluzione della specie, il sesso e la morte costituiscono gli elementi più importanti. Nel sesso è compresa non solo la modalità riproduttiva ma anche la tipizzazione secondo cui si instaura la vita, il maschile e il femminile, le due entità archetipiche primarie. Anche nella morte non è intesa solo l’estinzione della vita, ma pure la sparizione, l’abbandono, la scomparsa (psichica o materiale) della vita, vale a dire della tipizzazione secondo cui si instaura la vita: il maschile e/o il femminile, ancora, i due archetipi primari. Se il sesso rappresenta il principale fattore di attrazione, con tutti i suoi aspetti ormonali, di coscienza, di cicli biologici, la morte rappresenta l’altro principale elemento del dialogo tra maschile e femminile: da una parte essa è la scomparsa della vita e dunque un inceppamento del suo meccanismo creativo virtuoso, dall’altra è il fondamento di nuove possibilità (la relazione con un altro uomo o con un’altra donna, nuovi figli, nuove evoluzioni). Laddove il dialogo tra maschile e femminile diventa impraticabile, diventa impraticabile anche la vita stessa: la morte interviene come unica soluzione vitale, dopo aver già sperimentato le soluzioni fornite dall’unico altro principio vitale costituito dal sesso. Sesso e morte sono così i due fattori evolutivi essenziali che incidono sui due elementi primari della vita, il maschile e il femminile. Di conseguenza, qualsiasi alterazione degli archetipi primari è di natura sessuale o mortale: eros e thanatos, come ha ben individuato Freud, costituiscono le uniche due modalità essenziali di alterazione della vita.
Nella teoria dei conflitti che è alla base di ogni sintomatologia, dunque, possiamo risalire da un sintomo a un conflitto, da questo a uno degli archetipi primari (maschile o femminile), e da questo alla sua patologia, che sarà inevitabilmente di ordine sessuale o mortale, di eros o di thanatos. In altre parole, ogni manifestazione individuale (sintomo) ha alla base un conflitto biografico scatenante, il quale non è che il binario del conflitto prioritario riguardante gli archetipi primari (maschile e femminile) sul piano famigliare, che risultano squilibrati a causa di un evento di sesso o di morte.
Si tratta di una riconduzione all’essenza di quel sistema complesso che è la vita, il vivente, nella sua forma apparentemente inspiegabile e irriducibile di soggetto-individuo (fenotipo) che appartiene a una comunità (antropotipo), a una famiglia (genotipo) e a una specie (biotipo). Ogni sua manifestazione è la miglior risposta che egli riesce a dare con gli strumenti di cui l’ha fornito la vita: dapprima la coscienza del neo-nato, il neoencefalo e il sistema nervoso volontario; poi la psiche arcaica, il neurovegetativo e il paleoencefalo. Dapprima l’individuo-soggetto e poi la famiglia e la specie. Dapprima il neo-nato e poi l’ante-nato. Dapprima il conflitto biografico e poi quello genealogico. Dapprima il conflitto specifico e poi quello archetipico. Il sesso e/o la morte: la vita.
3. Psicogenealogia
Generalmente si considerano tutti i problemi in relazione alla persona che ne soffre, come se fossero delle entità autonome e se una persona fosse isolata dal resto, ma non è così: sappiamo ormai tutti che il problema è molto più complesso e stratificato e sembra quasi non avere fine, risalendo a ritroso dalla persona – che ha la sua specificità – ai suoi genitori e poi ai nonni e ai bisnonni, e da questi ai contesti culturali e sociali in cui hanno vissuto. Questo studio specifico sulla persona e sulla sua provenienza si può definire “psicogenealogia” ed è in sostanza lo studio dell’albero genealogico per analizzare le modalità di strutturazione dell’individuo e delle sue caratteristiche. L’albero genealogico è infatti alla base di qualsiasi nevrosi, ossessione e malattia che ci affligge, dato che tutti ereditiamo un’impronta psichica profonda che ci pesa addosso come una trappola che non siamo coscienti di possedere.
Alla maggior parte di noi non è mai richiesto di essere quello che è veramente, ma di essere invece quello che vuole la famiglia e tramite essa la società e la cultura. Senza desiderarlo, dunque, ed essendo la famiglia il nostro primo amore, il nostro primo archetipo d’amore, iniziamo a non essere noi stessi fin da piccoli perché siamo obbligati a ripetere degli schemi che non ci appartengono. Quest’obbligo di non essere noi stessi – questa negazione di identità – è un’auto-imposizione necessaria che ciascuno esercita per corrispondere alle richieste della famiglia, allo scopo di ottenere l’amore delle persone che più si reputano e sono di fatto importanti. Non è raro, ad esempio, il caso di genitori che vogliono un maschio e – arrivando una femmina – la spingono a comportarsi da maschio. La bambina si comporta come tale per corrispondere alle esigenze e alle richieste dei genitori, per ottenerne l’amore, ma in tal modo nega la propria femminilità e avrà sempre in seguito dei rapporti pessimi con le proprie mestruazioni, con l’orgasmo, con la creatività (il sesso è profondamente legato all’ambito creativo). Gran parte delle difficoltà che incontriamo nella nostra vita hanno origine in questo spossessamento dell’identità personale: l’incapacità di creare rapporti d’amore stabili, di guadagnarsi la vita, di trovare un lavoro, l’insoddisfazione costante qualunque cosa facciamo, la mancanza di radici e di stabilità, l’eiaculazione precoce, la frigidità… La psicogenealogia studia queste influenze della famiglia su quello che siamo oggi, esaminando il ruolo che i nostri genitori, i fratelli, gli zii, i nonni, i bisnonni e gli avi giocano nella nostra vita attuale.
L’idea che i nostri destini e la nostra vita possano essere concretamente determinati dalla storia psicologica delle generazioni precedenti è in realtà molto antica. La medicina cinese ed africana, per esempio, a differenza di quella occidentale, tratta qualsiasi malattia all’interno del contesto famigliare e genealogico: il rapporto con gli antenati definisce in buona misura i legami, i diritti, i doveri e l’identità che strutturano l’essere umano sia a livello culturale che nella stessa sua biografia personale. I taoisti cinesi misurano un destino prendendo in considerazione nove generazioni e la Bibbia tre o quattro. Nessun’altra civiltà si è così allontanata come quella occidentale dagli antenati, ed è questo il motivo principale della rinascita della psicogenealogia, ma ci sono voluti quasi cent’anni per riprendere questa strada ed oggi, all’inizio del XXI secolo, si può senz’altro affermare che il riconoscimento dell’importanza della psicogenealogia sta prendendo l’aspetto di un vero e proprio movimento generale. La psicogenealogia o approccio transgenealogico emerge oggi un po’ dappertutto e in diverse pratiche e scuole: centinaia di psicanalisti e psicoterapeuti ormai riconoscono l’importanza dell’albero genealogico e soprattutto quella dei cosiddetti “segreti di famiglia” e dei nodi che le generazioni si passano l’una con l’altra. Anche Freud, il padre della psicanalisi, conosceva l’importanza degli antenati nella costituzione degli psicosomatismi individuali e collettivi: ciascuno di noi non è solo influenzato dal triangolo edipico “padre-figlio/a-madre”, ma anche da una serie di influenze dell’intero albero genealogico. Freud aveva avuto l’intuizione di una trasmissione genealogica della nevrosi e sapeva l’importanza che hanno, per esempio, i nonni nella vita di un bambino. Ma non si spinse oltre nell’indagine transgenerazionale: il suo lungo e duro lavoro per difendere l`origine sessuale della nevrosi gli ha fatto trascurare quella dimensione fondamentale dell’essere umano che è la fedeltà inconscia al vissuto degli antenati. Probabilmente Freud non poteva occuparsi di tutto, ed è altrettanto probabile che abbia deciso molto coscientemente di dedicarsi esclusivamente al triangolo edipico “padre-figlio/a-madre”, lasciando da parte il resto dell’ascendenza (o forse addirittura qualche pesante segreto di famiglia gli ha impedito la ricerca transgenealogica). È comunque assurdo ridurre tutta la psicanalisi al complesso di castrazione, come ha fatto Freud, perché si tratta di una teoria elaborata nella clinica degli adulti: un bambino/a non può costruirsi armoniosamente se non sa anche di essere uscito/a dai testicoli di suo padre: se non è stato/a informato/a di questo, non vive suo padre come tale ma come il compagno di sua madre, e una figura di questo tipo si cerca di sedurla oppure di allontanarla. Questo è spesso interpretato come un normale Edipo, ma questa strada non porta da nessuna parte: Freud ignorava infatti, come la maggior parte della psicanalisi, che la psiche famigliare è un’entità autonoma quanto quella individuale. L’inconscio transgenerazionale si basa infatti su delle strutture mentali che sono al tempo stesso individuali e collettive: il nostro spirito si costruisce nella relazione agli altri (in primo luogo al padre e alla madre), e non esiste che nel “Due”, nell’”Uno” non c’è proprio. Abbiamo due orecchie, due mani, due piedi, due occhi, due cervelli che fanno sì che siamo in costante dialogo con noi stessi. Se osserviamo come pensiamo, vediamo che lo facciamo sempre duplicandoci. Non c’è esistenza mentale nell’”Uno” e il bambino vive – fino all’acquisizione del linguaggio – in una psiche comunitaria che gli fa essere di volta in volta “Io-mamma”, “Io-papà”, “Io-mia sorella” o “Io-la persona che si occupa di me”. È solo in seguito che si forma la psiche individuale, verso i tre anni, quando il bambino inizia a parlare. Fino a quest’età esso vive in una specie di psiche comunitaria che è quella della sua famiglia, e quest’attività mentale permette quel meccanismo di strutturazione psichica che si chiama “processo originario”, già all’opera nel feto.
Si sta parlando ovviamente di processi psichici del profondo e del meccanismo di trasmissione e di rafforzamento del “fantasma psicogenealogico” che avviene a livello di inconscio famigliare (che non è quello collettivo di Jung né quello individuale di Freud), all’interno di quel processo che Françoise Dolto ha chiamato Originario: un processo che si instaura già all’interno del ventre materno e si porta a compimento entro i primi tre anni di vita. Didier Dumas e la stessa Françoise Dolto riportano tale processo addirittura al momento del concepimento, vale a dire al modo in cui i genitori hanno pensato e proiettato la stessa idea del figlio o della figlia che genereranno: la concezione in senso letterale ed etimologico sarebbe dunque già in sé il primo atto compiuto di trasmissione del fantasma psicogenealogico, e quindi il momento in cui l’inconscio famigliare e i suoi processi psichici profondi si innestano per la prima volta sul futuro individuo.
L’ “Originario” è una dinamica mentale che permette di essere al tempo stesso se stessi e l’altro, vale a dire il processo di identificazione che permette al bambino di duplicare le strutture mentali dei suoi genitori (un bambino non impara a parlare, duplica la lingua dei suoi genitori e ciò facendo riproduce i loro funzionamenti mentali). L’Originario è così il processo per cui integriamo psichicamente gli altri: alla base, lo spirito è famigliare e comunitario, dunque, ed è per questo che non si può lavorare su un bambino senza i suoi genitori. I bambini psicotici non vivono altro che il loro passato genealogico, di cui esplorano l’inconscio. Quelli che si chiamano disturbi psichici non sono altro, in realtà, che il ritorno dei processi mentali propri dell’”Originario”: la “malattia degli antenati”. La costruzione fondamentale di una personalità e di un individuo non dipende quindi dal coito che gli ha dato corpo, dipende dal modo in cui i genitori hanno mentalmente concepito il figlio, sognandolo insieme o parlandone, vale a dire concedendogli un posto nell’ordine famigliare che determina il suo destino e la sua vita. Ciò che struttura il nostro benessere o le nostre sofferenze, ma anche il nostro destino e dunque tutta la nostra vita interiore, è l’attività psichica con la quale i nostri genitori ci hanno creato. La matrice del nostro corpo è effettivamente l’utero di nostra madre, ma la matrice delle nostre strutture psichiche è l’insieme delle attività mentali, consce e inconsce, pronunciate e no, le parole ma anche i fantasmi che hanno fatto in modo che due cellule si siano incontrate trasformandosi in embrione. Ciò vale per la costruzione edipica del bambino così come per tutto quello che concerne il suo rapporto con la vita e la morte.
È solo grazie al fatto che può rappresentarsi un tempo in cui egli già esisteva potenzialmente prima della nascita, nel desiderio dei genitori e simbolicamente nei testicoli del padre, che il bambino potrà in seguito pensare che si può continuare ad esistere dopo la morte. Quando un padre non conosce il suo ruolo nella riproduzione, il figlio s’incarna nel corpo fisico e non nel corpo mentale.
4. Psicogenealogia, archetipi primari e nuova teoria dei conflitti
I problemi fondamentali di ciascuno sono sempre collegati strettamente alle persone principali di riferimento – i genitori in primissimo luogo, i quali sono a loro volta in stretta relazione con i propri genitori, i quali sono in stretta relazione con i loro, ecc. ecc. Gli archetipi maschile e femminile che ci vengono trasmessi nel processo dell’”Originario” o della “socializzazione primaria” – archetipi che interiorizziamo come modelli e identità e che influiscono in maniera determinante sul nostro atteggiamento nei confronti della vita e degli altri – sono sempre collegati in maniera evidente al sesso e alla morte, come ho avuto occasione di dire in precedenza.
La “condanna del maschile”, per esempio, è un fenomeno sempre più ricorrente negli alberi genealogici che ho visto nell’arco degli ultimi anni, ed è qualcosa che origina uno squilibrio consistente sia nei maschi che nelle femmine, dando origine a problemi di non poco conto. Questa “condanna” si può manifestare per diverse cause, ad esempio perché la nonna o la bisnonna è stata abbandonata dall’uomo o perché questi è morto prematuramente in guerra o di malattia; o ancora perché una nostra antenata ha dovuto sposare a forza un uomo pur essendo innamorata di un altro, o ancora perché c’è stato un incesto tra padre e figlia ad una certa generazione, oppure ancora perché una donna ha fatto dodici figli passando in pratica la sua esistenza a partorirli e ad accudirli senza mai vivere a pieno la propria vita, ecc. L’abbandono e la morte, così come il sesso (che si manifesti in incesto, in abusi o in altri modi), hanno un’influenza determinante sul piano inconscio, trasformandosi in “fantasmi psicogenealogici” (N.Abraham e M.Torok) che scivolano letteralmente di generazione in generazione e si vanno via via a radicalizzare. Nel caso particolare della “condanna del maschile”, per esempio, essi producono un indebolimento dell’archetipo tale da poter produrre addirittura l’effetto della scomparsa letterale dell’uomo dall’albero genealogico nell’ultimissima generazione, quando il “fantasma” si origina almeno due generazioni precedenti (vale a dire nei nonni o nei bisnonni). Cosa significa questo? Che una donna che eredita inconsciamente un simile fantasma irrobustisce la parte più maschile di se stessa a scapito del proprio femminile, e ciò facendo cerca degli uomini che siano strutturalmente più deboli, uomini che provengano da un albero genealogico uguale e contrario al suo, dove l’archetipo femminile sia forte e quello maschile debole. Una simile combinazione di coppia, laddove non vi sia presa di coscienza, è letale per entrambi dal punto di vista evolutivo perché porta inevitabilmente al prosciugamento dell’albero: donne sole e scomparsa dell’uomo, nella maggior parte dei casi. Se infatti la donna rafforza il proprio lato maschile e diventa “forte” perché eredita dal proprio ramo femminile questo fantasma psicogenealogico – portando a compimento un programma inconscio che procede di madre in figlia –, l’uomo che ha un archetipo maschile debole è costretto a riconoscere la forza nel femminile e quindi, in quanto uomo, ad auto-condannarsi proprio nel maschile perché è congenitamente debole, andando quindi a cercare una donna che lo “condanni”. Questo tipo di uomo svilupperà inoltre un odio recondito e non consapevole verso la donna, in quanto dimostrazione concreta e artefice della sua debolezza, odio che riverserà principalmente – sempre a livello inconscio – sulla figlia primogenita, la quale radicalizzerà il problema edipico con un rifiuto del proprio femminile (“mio padre non mi ama perché sono una donna, dunque io non devo essere donna”). La madre, dal canto suo, rafforzerà questa radicalizzazione del problema trasmettendo alla figlia un archetipo femminile che non solo condanna il maschile ma è anche volto a rinforzare il maschile all’interno del femminile, rinsaldando con ciò il rifiuto della femminilità nella figlia – già radicalmente maturato per gli effetti del complesso edipico nei confronti del padre. Il risultato è generalmente l’impossibilità di un sano rapporto col maschile e di unioni di coppia da parte della figlia, mentre sul piano somatico si possono annoverare mestruazioni dolorose, fibromi e malattie all’apparato genitale e al seno, mal di gola frequenti, emicranie e cefalee, disfunzioni tiroidee, schiacciamenti o ernie alle vertebre lombo-sacrali, ecc. (dipendentemente dalla massa conflittuale in atto).
L’unione dei due fantasmi psicogenealogici (quello sul ramo maschile e quello sul ramo femminile), dunque, porta all’inaridimento dell’albero perché sul piano inconscio essi lavorano congiuntamente per la dissoluzione definitiva del maschile e il compimento di un progetto in apparenza quanto mai assurdo, ma coerente dal punto di vista dell’inconscio famigliare: quello di risolvere definitivamente il conflitto che si è instaurato a monte (nelle generazioni precedenti) tramite l’innesto dell’uomo nel corpo della donna, del maschile nel femminile, ovvero a realizzare quella particolare deviazione archetipica che è l’androgino isterico.
È evidente che se per l’inconscio questa è una soluzione, essa non lo è di certo per l’individuo che se ne fa inconsapevole portatore: la figlia di cui abbiamo parlato soffrirà infatti enormemente perché è impossibilitata a vivere ciò che è in realtà e in maniera definitiva, vale a dire una donna. Il divieto interiore (nel nostro caso quello di essere una donna) e la coazione a ripetere e a radicalizzare il problema (condanna del maschile e rafforzamento definitivo del maschile all’interno del femminile) sono talmente forti, dunque, da riuscire a rovinare la vita di una persona, anche se questa ha la sola “colpa” di essere nata all’interno di quella particolare famiglia.
È proprio a causa di questo destino imposto e non nostro che il corpo va in soluzione biologica attivando quei processi che conosciamo normalmente col nome di malattia: non potendo risolvere questo conflitto con la coscienza, con gli strumenti del “neo-nato”, si attinge alla paleo-psiche e dunque al sistema nervoso neurovegetativo, i quali attivano la miglior soluzione che la specie ha fornito di fronte a problemi di questa natura. Si tratta cioè di una soluzione al fatto che non stiamo vivendo la nostra vita ma quella che la nostra famiglia ha voluto che noi vivessimo: il grande e fondamentale senso della malattia e del corpo risiede proprio in questo suo ruolo di campanello d’allarme e di sentinella costante rispetto alle deviazioni dal nostro vero, proprio ed autonomo percorso di vita. Pur portando a compimento la programmazione inconscia di radicalizzazione del fantasma psicogenealogico, il nostro essere lotta per renderci in qualche modo coscienti del tipo di patologia dell’archetipo di cui siamo involontari portatori e cercando di dare la migliore soluzione possibile del conflitto stesso, ci mette sempre in allarme nei confronti di un destino che non è propriamente il nostro, ma quello dei nostri genitori e dei nostri antenati, dell’albero genealogico di cui facciamo parte.
La malattia non è altro che il modo in cui il nostro corpo e il nostro spirito, che sono le due facce della stessa medaglia, ci avvisano degli errori che stiamo compiendo e ci indicano dove intervenire con la coscienza: non sono il primo né sarò l’ultimo a dire che la malattia è un maestro e che il nostro principale medico siamo noi stessi… Le malattie hanno origine e spiegazione nell’albero genealogico così come le ansie, i timori, le depressioni e i problemi psicologici o psichiatrici. Questa origine e questa spiegazione si possono ricondurre a ciò che ho proposto di chiamare patologia degli archetipi primari, intendendo con ciò una disfunzione, un indebolimento o un eccessivo rafforzamento di uno o di entrambi gli archetipi fondamentali dell’inconscio famigliare: l’uomo e la donna, il padre e la madre, il maschio e la femmina, il figlio e la figlia.
Il termine “archetipo” è usato qui esclusivamente in questo senso e non vuole andare a confrontarsi né ad assimilarsi a ciò che Jung ha definito come tale, anche se questi archetipi dell’inconscio famigliare hanno necessariamente a che vedere con quelli dell’inconscio collettivo. Un “archetipo” è la tipologia primaria di riferimento che impronta un genere e cui il genere fa sempre referenza, quello che soggiace l’individuo, il suo gruppo di appartenenza e anche lo stesso genere, ciò che origina la serie e la ripetizione della serie. Parlando di un individuo, l’archetipo di riferimento primario è necessariamente costituito dall’interazione complessa di individualità-soggettività (coscienza, fenotipo), famiglia (genotipo), collettività (antropotipo) e specie (biotipo).
Nella teoria generale dei sistemi si dice che un elemento di un sistema non si può definire in sé ma solo in quanto membro integrante di quel sistema, e che dunque le sue caratteristiche sono tali solo in quanto funzione stessa del sistema: un elemento si può definire in base alle sue relazioni con gli altri elementi e soprattutto in considerazione dello scopo ultimo dello stesso sistema, che è quello della sopravvivenza e del raggiungimento del suo proprio scopo (stabilizzazione o quiete, quindi auto-organizzazione e assimilazione del disordine per una riorganizzazione su livelli superiori in stato di quiete). Un albero genealogico è un vero e proprio sistema e un personaggio dell’albero – chiunque egli sia – è un elemento di tale sistema. Lo scopo di questo sistema è il mantenimento di se stesso, del sistema-albero, tramite l’assimilazione dell’eventuale disordine che incontra nell’arco della sua vita e una sua propria riorganizzazione ad altri livelli, che riesca a comprendere ed integrare in termini funzionali questo disordine. Ciò che costituisce disordine per il sistema “albero genealogico” è sempre l’alterazione degli archetipi primari di riferimento – il maschile e il femminile – e l’assimilazione forzata di questa alterazione provoca una riorganizzazione di tutto il sistema-albero, e dunque anche un’alterazione di ogni individuo che fa parte di questo sistema. Gli archetipi primari possono essere alterati in diverse maniere, ma la causa di ogni alterazione si può ricondurre in sostanza alle due motivazioni di base che abbiamo già individuato in precedenza: Eros e Thanatos, sesso e morte. Queste due cause primarie non sono necessariamente percepibili in maniera immediata: esse possono essersi manifestate due o tre generazioni precedenti e farci individuare semplicemente, adesso, che esiste una madre forte e un padre più debole, anche se tutto sommato non sembra esserci nulla di eclatante in questo. Eppure ci si trova con un’asma cronica, per esempio, o con una depressione acuta che non riusciamo a guarire o ancora con un’eiaculazione precoce che non riusciamo a risolvere, oppure con una cefalea terribile e costante ed un mal di schiena tremendo. Si scopre poi che la nonna paterna si è sposata in seconde nozze con il nonno perché il suo primo marito è morto in guerra, oppure che nostro padre è il terzo di dieci figli e che nostro nonno era un alcolista che picchiava la nonna, oppure che questa è rimasta vedova a trent’anni, quando nostro padre ne aveva solo sette…
Se il padre è debole – o troppo forte – non è necessario assegnargli una colpa o una responsabilità, dato che anche lui è figlio di altri genitori e questi, a loro volta, sono figli di altri genitori, che a loro volta sono figli di altri genitori, ecc.: ognuno ha le sue ragioni per essere quello che è, e queste ragioni sono iscritte nel suo albero genealogico. Quello che è importante definire sono le cause originarie e scatenanti dell’alterazione dell’archetipo primario, il quale si struttura e si solidifica progressivamente nel passaggio transgenerazionale fino a radicalizzarsi in malattia, depressione, fobia, panico, ecc. Esiste uno stretto legame tra la patologia dell’archetipo e la patologia del corpo e della mente, il che equivale a dire che le malattie sono in definitiva delle manifestazioni del fantasma psicogenealogico transgenerazionale:
– la causa di ogni malattia e malessere risiede nella famiglia di origine e ad almeno tre generazioni precedenti il manifestarsi di quella malattia;
– tale malattia o malessere è legato ad una patologia dell’archetipo primario;
– questa patologia ha la sua motivazione in cause primarie riguardanti il sesso e la morte.
Tra l’individuo e la specie esiste infatti un’unità di base estremamente importante che media e fa quasi da ponte tra di essi: la famiglia. La biografia di una persona è essenzialmente legata alla famiglia, così come la biografia di una famiglia è essenzialmente legata alla società di cui fa parte e quest’ultima è a sua volta legata all’evoluzione del genere umano, alla sua storia. Esiste cioè un parallelo integrato fra individuo, famiglia, società e specie, ed è quindi altrettanto ovvio che esiste un’integrazione di base tra inconscio collettivo e inconscio famigliare, soprattutto laddove il Padre e la Madre diventano l’Uomo e la Donna e poi il Maschio e la Femmina, il Figlio e la Figlia.
Quest’ultima modalità di darsi dell’archetipo primario è necessariamente una tipologia archetipica dell’inconscio collettivo che può colorarsi di Eroe, di Luna, Cacciatrice o Cacciatore, ecc. (tipologie archetipiche junghiane), ma non bisogna dimenticare che si tratta sempre di una trasposizione derivata dagli archetipi primari del maschile e del femminile. In altre parole: è nel contesto famigliare che vengono mutuati gli archetipi dell’inconscio collettivo ed è dunque all’interno di questo che risiede il punto focale della nostra identità profonda e dei suoi eventuali disturbi. Ciò è d’altronde facilmente comprensibile se pensiamo al fatto che la famiglia è il primo contesto collettivo che viviamo, ma soprattutto considerando che è nella famiglia e tramite essa che la specie si perpetua. In essa sono evidenti il Maschio e la Femmina, l’Uomo e la Donna, che si sostanziano nel Padre e nella Madre, nel Figlio e nella Figlia, che l’inconscio individuale identifica nei genitori e nelle figure principali di riferimento.
Questa identificazione costituisce il legame profondo e radicato che unisce l’individuo alla collettività e alla specie, ed è dunque per suo tramite che l’uno è unito al tutto. Essa rappresenta quindi anche il fondamento della struttura di rappresentazione del mondo (di sé, degli altri e della realtà) su cui poggia il senso della vita di ciascun individuo, quello che inventiamo, che crediamo di inventarci e quello che ci viene trasmesso. Per questo motivo è importante prendere coscienza della nostra origine famigliare, delle alterazioni archetipiche primarie del nostro albero genealogico.
In primo luogo per liberare noi stessi dalle coazioni a ripetere degli “ante-nati” ed esaltare le nostre autonome potenzialità di “neo-nati”, in secondo luogo per la libertà dei nostri figli: i veri e definitivi “neo-nati”. Bisogna ancora imparare ad utilizzare il nuovo strumento della coscienza per essere Maschi e Femmine, Padri e Madri, Figli e Figlie. Uomini e Donne, in definitiva.
5. Percorso teorico – esperienziale
Originariamente lo studio dell’albero genealogico che conducevo non integrava, se non in maniera blanda e superficiale, le manifestazioni somatiche dell’individuo e degli individui che facevano parte di un albero genealogico. Le malattie, cioè, non erano trattate se non in considerazione di morti precoci o premature e anche qui, comunque, esse non erano valutate in quanto segni rivelatori e significativi di un qualche segreto di famiglia. Le uniche cose prese in considerazione erano delle manifestazioni sensibili di disagi psichici legati in qualche modo agli archetipi primari: la balbuzie, la dislessia, fratture o lesioni del corpo a sinistra oppure a destra, i piedi piatti, la tendenza a camminare a papera, miopia… Tutte cose che mi servivano e servivano alle persone che vedevo nell’ottica di una comprensione delle cause di un certo tipo di disagio psicologico, di certe coazioni a ripetere degli schemi e dei comportamenti da cui la persona non riusciva a uscire, pur essendo motivata a farlo sul piano cosciente. Per me si trattava di aiutare una persona a trovare il senso della propria potenzialità e delle proprie possibilità, facendola sfuggire ai meccanismi delle identificazioni famigliari, ai sensi di colpa e ai divieti che inevitabilmente i genitori ci imprimono dentro.
Se è vero che i primi archetipi d’amore sono il padre e la madre, allora è anche vero che sempre questi ci chiedono di essere in un certo modo, di non essere noi stessi fin dall’inizio della nostra avventura nel mondo, e ciò a causa semplicemente del fatto che anche loro sono stati a loro volta figli di altri genitori. L’amore che proviamo per loro e la ricerca di essere amati in primo luogo da loro fa sì che noi ci pieghiamo a queste richieste ed iniziamo a reprimere e a soffocare la nostra vera identità, il nostro essere interiore, fin da piccoli, forse addirittura dall’interno del ventre materno: “siamo tutti dei bambini abusati”, dice il mio caro amico e maestro Alejandro Jodorowsky, intendendo con ciò che non ci è permesso di esprimerci liberamente fin dall’infanzia.
La trasmissione transgenerazionale dell’inconscio famigliare, e le relazioni genitoriali in primo luogo, mi permettevano di focalizzare le cause primarie di un disagio psicologico e di certe coazioni a ripetere collegandole agli archetipi primari, cercando così di dare delle soluzioni alla persona che mi consultava. Già il solo fatto di portare a livello di coscienza un determinato meccanismo e una certa patologia degli archetipi primari, comunque, costituiva in sé, se non il settanta, almeno il cinquanta per cento della guarigione. Ancora non avevo collegato questa patologia alle manifestazioni somatiche e psichiatriche né avevo individuato il processo di strutturazione e di trasmissione del fantasma psicogenealogico, né avevo ancorato definitivamente la sua origine ultima in Eros e Thanatos. C’erano già delle intuizioni precise e dunque in qualche modo il collegamento esisteva, ma è stato solo incontrando il lavoro di Didier Dumas e di Françoise Dolto sui bambini autistici e psicotici – parallelamente a quello di Anne Ancelin Schutzenberger – che ho iniziato ad elaborare una teoria strutturata della “patologia degli archetipi primari”. La lunga esperienza che ho maturato con Alejandro Jodorowsky sul piano artistico, psicogenealogico, psicomagico e del tarocco per oltre 10 anni, cui mi accomuna ancora oggi l’interesse e la pratica per l’arte e la poesia (da cui entrambi proveniamo e sulla quale entrambi procediamo), mi ha dato inoltre la possibilità di verificare e di apprendere una quantità considerevole di casi ed alberi genealogici, confrontandoli di volta in volta con quelle che rimanevano sul momento delle pure congetture ed ipotesi.
Si dice che la statistica produce una legge, se non assoluta almeno della probabilità maggiore: in qualche modo credo di aver praticato proprio questo metodo prima di strutturare precisamente quello che adesso ho maturato, anche perché certe intuizioni sembravano lì per lì paradossali o quantomeno estreme anche a me stesso. L’incontro con la “Nuova Medicina” di R.G.Hamer e il lungo studio dei collegamenti da lui individuati tra biologia e psiche, il fondamento eziologico e non più solo sintomatologico di ciascuna manifestazione fisica e mentale, la sua teoria dei conflitti scatenanti i programmi biologici speciali dotati di senso (le cosiddette malattie), il suo studio del sistema nervoso e la riconduzione a senso dell’embriologia, la sua teoria evolutiva, tutto ciò è stato per me una vera e propria rivelazione che mi è sembrata perfettamente consona ed integrata alla teoria degli archetipi primari che stavo elaborando.
Ogni teorizzazione ed ogni metodo hanno il merito di confrontarsi con altre teorizzazioni ed altri metodi, sottoponendosi a verifica sul piano non tanto della verità oggettiva intrinseca, quanto piuttosto su quello della loro utilità. “Se una cosa è utile, è vera” – diceva Budda. Da un altro punto di vista, credo che non si studi per caso e che ogni studio rimanga impresso solo quando c’è una sorta di itinerario preciso all’interno del quale ogni cosa, ogni percorso, trova una sua collocazione – e dunque una sua utilità. Nel mio caso la motivazione di fondo è sempre stata al contempo anche l’obiettivo di fondo: per dirla con André Breton, il mio scopo e la mia motivazione sono sempre stati l’anelito a un mondo migliore.
La psicogenealogia, la nuova medicina, l’arte, il teatro, la poesia, la psicomagia, il Tarocco, la mia passione per la scienza e l’epistemologia, l’antropologia, il pensiero analogico, tutto si è inscritto all’interno di questo “anelito a un mondo migliore” e qui ha trovato la sua collocazione e la sua intrinseca utilità, fino ad arrivare a quest’integrazione pratica e teorica dove nessuna di queste specificità è più la stessa perché, come sempre accade per un “anelito” omnicomprensivo, per ogni elemento di un sistema, esse sono state tutte rielaborate e comprese all’interno di un “tutto che supera la somma delle parti”. È da qui che nasce ed è qui che si configura l’ “arte psico-bio-genealogica” o “teoria degli archetipi primari” che ho cercato di riassumere in questa presentazione.
Antonio Bertoli | 2007
Fonte: www.gmontaldo.it